sabato 29 aprile 2017

Inchieste. Caso Moro. Dalla P2 ai retroscena dei Servizi di casi irrisolti, e le verità celate di poliziotti da ascoltare

di Nico Baratta

Del “Caso Moro” se ne parla sempre di più. Indizi risorti come per magia, prove confutate e poi svelate durante le audizioni della Commissione Parlamentare, la seconda, che si occupa del caso, sono le ultime rivelazioni che dovrebbero far luce su un omicidio avvolto da misteri, perlopiù di Stato.

In una delle recenti audizioni della suddetta Commissione è venuta alla luce l’ennesima “burla” di un sistema talmente oscuro quanto organizzato che ha detto tutto e niente. Le rivelazioni che la Commissione attendeva dal Colonello dei Carabinieri Michele Riccio si sono rivelate inutili. Riccio parla con il senno di poi ma reticente ai fatti accaduti e chiesti e confermati dalla Commissione. Se si sperava in verità non dette, la Commissione sul Caso Moro si è dovuta accontentare dell’ennesima beffa di un sistema che non vuol far emergere nomi e perciò colpe di chi ha voluto morto il Presidente Moro. Il Colonnello Riccio, difatti, non svela nulla che già si sapeva. Ritorna sulla tesi della “struttura con licenza di uccidere”, quella che negli anni 1992 e 1993 cosparse di sangue le più importanti città italiane per la presenza di altrettanti personaggi legati alla politica, giornalismo, economia e finanza, sindacalisti. Tutte persone che in un modo erano fulcri di un sistema democratico per nuove politiche da mettere in campo in un’Italia resa volutamente caotica da strutture dello Stato ma parallele. La reticenza di Riccio, secondo fonti attendibili e interne allo Stato, sarebbe legata alla sua indagine sull’uccisione di 4 brigatisti nel covo di Via Fracchia, a Roma, dove si presupponeva fossero conservati alcuni documenti sugli interrogatori di Moro da parte delle BR. Una ricerca della verità che ebbe come informatore occulto un boss mafioso di spicco della famiglia di Caltanissetta, perciò delle faide interne a Cosa nostra, Luigi Ilardo, poi freddato a Catania con colpi di pistola sparati alle spalle davanti la sua abitazione la sera del 10 maggio 1996, poche ore prima che ufficializzasse la sua tesi. Una tesi che Cosa Nostra non voleva venisse fornita, pur “giustificando” l’omicidio di Ilardo per la sua attività collaboratrice con l’allora colonnello Michele Riccio, comandante dei ROS, che cercò di arrestare Bernardo Provenzano, ben nascosto in un casolare nelle campagne di Mezzojuso, vicino Palermo, ed assistito quotidianamente dagli affiliati.  
Ma il velo di mistero che avvolge la reticenza del Colonnello Riccio è legata anche ad altri nomi e strutture, le stesse che gli fornivano informazioni e che volevano Moro morto. E qui si parla di Servizi Segreti, anche deviati, di collaboratori interni ai Servizi, allo Stato e alla politica.

Tuttavia, e per fortuna meno male, la Commissione Parlamentare sul Caso Moro, come sempre voluta fortemente dall’On. Gero Grassi, non ha dato peso a informazioni già risapute, formulando con autorevolezza al Colonnello altre domande. Nell’audizione vengono citati da entrambe le parti nomi di brigatisti e collaboratori del Servizi, prima del SID poi diventato SISDE. Questo fa ben comprendere come quel sistema talmente oscuro quanto organizzato avesse radici profonde e radicate nello Stato. Emergono i nomi di Chisena, un criminale che collaborava occultamente con i Servizi Segreti e che si confidava con Ilardo. C’è anche il nome di un allora PM, Luigi Moschella, che fu uno dei magistrati che a Torino partecipò al processo contro le BR e che poi fu sospettato di aver avuto rapporti con la malavita ‘ndranghetista, la stessa che fu accusata di avere ucciso a Torino nel 1983 il PM Bruno Caccia, per poi difendersi davanti al CSM fornendo la sua versione dei fatti con atti e annotazioni ben dettagliate. Nomi pesanti, importanti, specie quello di Chisena, per la causa in atto, e che hanno un senso e che la Commissione, a detta del suo Presidente l’on. Fioroni, approfondirà con l’acquisizione delle carte presso le Procure di Palermo e Caltanissetta, le stesse che conservano le dichiarazioni del Colonnello Michele Riccio. Fioroni non esclude un exploit di notizie, quelle che saranno analizzate con dovizia investigativa e accurata cronologia  e che saranno anche materia primaria per un’audizione del PM Giuseppe Pignatone poiché in quel periodo era a capo della Procura palermitana. 

Ma la Commissione non si è fermata sul caso pocanzi descritto. Martedì prossimo, 2 maggio 2017, alle ore 20:30, ascolterà Elio Cioppa, descritto da Grassi come un “misterioso protagonista del caso Gradoli”. Cioppa è quel funzionario della Polizia di Stato che in un libro si autodefinì “L’uomo che poteva salvare Moro”. Un protagonismo letterario di Cioppa che lo stesso Gero Grassi si auspica metta in campo durante l’audizione e che serva a sverlare nuove piste per far chiarezza sulle oscure trame dell’uccisione di Moro. Cioppa, al tempo di  Moro, era un funzionario della Squadra Mobile di Roma il quale fu avvertito telefonicamente di alcuni movimenti sospetti ravvisati anonimamente in un appartamento di Via Gradoli. Da li, con Cioppa, vi fu un’operazione di controllo, con perquisizioni  dell’intero stabile, tranne che per un appartamento che aveva la porta chiusa. Ebbene, quella porta era l’ingresso che poi un mese dopo, il 18 aprile, risultò il covo delle BR. Morto Moro, Elio Cioppa fu convocato dai Servizi Segreti del SISDE e precisamente dal Generale Giulio Grassini, allora capo dei suddetti Servizi, ma anche un iscritto alla Loggia massonica P2 con tessera n. 515, e perciò subalterno a quel sistema massonico deviato parallelo allo Stato denominato “Propaganda due” fondato da Licio Gelli. In quel formale colloquio Cioppa fu messo al corrente che doveva indagare sul Caso Moro attenendosi, però, ad alcuni appunti forniti da Gelli che già sapeva delle decisioni prese su Moro e sulle BR. Ma l’audizione di Cioppa sarà anche fondata su un punto che la Commissione Parlamentare sul Caso Moro vuol capire: perché Cioppa afferma di essere stato il primo rappresentante delle Forze dell’Ordine a giungere sul luogo dove venne ritrovata la R4 con il cadavere di Moro?

L’auspicio, più volte rimandato al mittente, che la Commissione si auspica di non combattere è che qualcuno faccia cadere nell’oblio la morte del Presidente Aldo Moro. Un oblio, da quanto si è potuto capire in questi trenta e più anni, voluto da alcune persone dello Stato, della politica, del mondo economico-finanziario e da un sistema parallelo che fa comunella con la criminalità mafiosa, che tanto sa e che tanto non dice e vorrebbe continuare a far affari pur di mantenere quel predominio studiato a tavolino nei “Palazzi” che contano. Un oblio che potrebbe essere rivendicato anche dal mondo giornalistico, e per far chiarezza da quello legato a certi sistemi di potere implicati con persone nel Caso Moro. È pur vero che oggi col Testo Unico dei Doveri del Giornalista, approvato dal Consiglio Nazionale nella riunione del 27 gennaio 2016, si cercherà di garantire la non diffondibilità di precedenti pregiudizievoli dell'onore di una persona; ma è anche vero che se la persona chiamata in causa ha ancora dei “sospesi” morali, etici e principalmente giuridici, perciò indizi e prove da fornire, l’oblio deve attendere, in nome della legalità, verità e giustizia.

Comunque, per chi volesse approfondire l’attività della Commissione parlamentare sul Caso Moro può visitare il web site www.gerograssi.it, troverà documenti interessanti e inediti. 

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