sabato 6 dicembre 2014

Censis: italiani soli, incerti e con la paura della povertà

Una società piena di incertezza, sola, insicura e col contante in tasca per avere le spalle coperte. Italiani cinici e attendisti che temono di diventare poveri e con sempre meno aspettative. Un’Italia diventata “paese del capitale inagito”, pieno di risorse e talenti che non si trasformano in lavoro e in valore: vale per le persone disoccupate, inattive o sotto inquadrate e vale per il patrimonio culturale che non genera ricchezza. Sono le lenti con cui il Censis restituisce un’immagine davvero poco esaltante del paese.

L’occasione è il tradizionale rapporto sulla situazione sociale del paese. Le parole che il Censis usa sono piene di suggestioni: l’istituto parla di “attendismo cinico delle famiglie liquide”, di italiani come “un popolo di singoli narcisisti e indistinti”, del ricorso a un “cash di tutela” e soprattutto di un paese dal “capitale inagito” a causa della sospensione delle aspettative. Il significato di tutti questi flash è in realtà molto concreto.

Dopo la grande paura per la crisi si va affermando fra gli italiani un atteggiamento attendista verso la vita: il 47% pensa che il picco più grave della crisi sia alle spalle (più 12% rispetto allo scorso anno) ma domina uno stato di incertezza che pervade tutto. Tutto questo si vede bene dal rapporto coi soldi, fatto di breve e brevissimo periodo: fra il 2007 e il 2013 tutte le voci delle attività finanziarie delle famiglie sono diminuite mentre aumentano solo il contante e i depositi bancari, che in sette anni sono aumentati del 4,9% in termini reali. Contanti e depositi bancari sono ormai una massa finanziaria liquida enorme di oltre 1200 miliardi di euro. Cosa significa? Che “prevale un cash di tutela”, spiega il Censis: il 45% delle famiglie destina il risparmio alla copertura di possibili imprevisti come la perdita del lavoro o una malattia grave. “La parola d’ordine è: tenere i soldi vicini, pronto cassa, pronti per ogni evenienza”, spiegano dal Censis.

Non solo contanti in tasca e soldi fermi nei conti correnti. Gli italiani hanno paura di diventare poveri, tanto che il 60% pensa che chiunque corra il rischio di cadere in povertà, che nessuno sia indenne dal rischio di diventare povero. La prima strategia difensiva adattativa seguita di fronte a questo stato di incertezza è stata dunque quella di “rimanere liquidi”. Nel frattempo gli italiani hanno azzerato i consumi e hanno azzerato gli investimenti immobiliari. Il fiume di liquidità disponibile, d’altro canto, rappresenta anche il carburante dei meccanismi informali dell’economia: la seconda strategia seguita dalle famiglie è infatti la ri-sommersione nel nero. E il futuro? Non sembra affatto roseo: il 29% degli italiani prova ansia pensando al futuro perché non ha una rete di protezione, il 29% si sente inquieto perché ha un retroterra fragile, il 24% dichiara di non avere idee chiare e solo poco più del 17% dichiara di sentirsi abbastanza sicuro, con percentuali che fra i giovani salgono – è il 43% chi si sente inquieto e con un retroterra fragile e solo il 12% si sente al sicuro. Il Censis parla di “attendismo cinico degli italiani” che si alimenta della convinzione di alcune dinamiche patologiche: le variabili che contano di più nell’ascesa sociale sono per il 51% una buona istruzione e per il 46% il lavoro sodo, ma si tratta di percentuali molto inferiori alla media europea, mentre il 29% dei connazionali è convinto che per riuscire nella vita servano le conoscenze giuste e il 20% dice che bisogna venire dalla famiglia giusta e benestante (convinzioni molto più radicate rispetto a quanto accada in Europa).

Se le famiglie restano liquide e tornano a sommergersi nel nero, il sistema delle imprese dal canto suo è caratterizzato dalla parabola discendente degli investimenti. Per il Censis non c’è dubbio: “Siamo un paese dal capitale inagito. Sia per le famiglie sia per le imprese. C’è un meccanismo di sospensione delle aspettative, le famiglie rimangono liquide e le imprese hanno ridotto investimenti e aumentato liquidità”. Cosa significa tutto questo è presto detto: c’è una grande quantità di capitale umano che non si trasforma in lavoro, pari a oltre 3 milioni di disoccupati, a 1 milione 800 mila inattivi e a 3 milioni di persone che pur non cercando attivamente un impiego sarebbero disposte a lavorare. In tutto sono 8 milioni di persone che non lavorano cui si aggiungono i sottoutilizzati – occupati part time o in cassa integrazione – e i sottoinquadrati, col fenomeno della over education che ormai non riguarda solo le lauree umanistiche ma anche un ingegnere su tre. L’Italia dal capitale inagito si vede anche dal patrimonio culturale che non produce valore: il paese riesce solo in minima parte a mettere a valore il suo patrimonio culturale.

In questa Italia le disuguaglianze sociale si sono ampliate. Le persone sono in condizione di solitudine e questo si vede anche nel rapporto con la tecnologia e nella fenomenologia del selfie. E qui è interessante riportare le parole del Censis, che dice: “La pratica diffusa del selfie è l’evidenza fenomenologica della concezione dei media come specchi introflessi in cui riflettersi narcisisticamente, piuttosto che strumenti attraverso i quali scoprire il mondo e relazionarsi con l’altro da sé”.

Da dove vengono i segni di vitalità? Dagli immigrati: gli immigrati imprenditori nei sette anni della crisi sono aumentati del 31,4% mentre le imprese gestite da italiani sono diminuite del 10%. Il quadro si completa dicendo che l’Italia rischia di rimanere ai margini dell’economia mondiale – è diminuita anche la capacità di attrarre capitali stranieri – anche se c’è una cosa che all’estero piace: l’italian way of life, per cui l’Italia è la quinta destinazione turistica al mondo ed è aumentato l’export delle quattro A – alimentari, abbigliamento, arredo-casa e automazione. Un formidabile ambasciatore del brand Italia è poi rappresentato dall’enogastronomia italiana e del made in Italy agroalimentare, che rappresenta la voce più dinamica dell’export. In questo contesto di insicurezza, il rischio che il Censis paventa è che ci sia una “deflazione delle aspettative” che non può che portare attendismo, cinismo, egoismo, il “basto solo a me stesso”, lo sfilacciamento dei legami comunitari.

Dice il presidente del Censis Giuseppe De Rita: “Questo è un paese che ha capitale e non lo sa agire. Ha soldi, capitali nelle imprese, persone, patrimonio culturale e non lo sa agire perché non ha aspettative e motivazioni. Il capitale inagito è la cosa più angosciante che c’è in Italia. Abbiamo il capitale ma non lo movimentiamo perché oggi nessuno sa interpretare e orientare le aspettative. C’è dal un lato un adattamento alla mediocrità – si dice che intanto “si regge” e il reggere è mediocrità – e dall’altra c’è una fuga in avanti per tentare di evitare che la gente capisca che non ci si muove. Questo doppio movimento aumenta la molecolarità del sistema, l’egoismo, l’uno per sé dio per tutti, l’incapacità di avere concezione che il sistema Italia funziona. Ognuno va per proprio conto. La società liquida ha liquefatto il sistema. Stiamo diventando non tanto una società liquida ma una società profondamente asistemica. La parola sistema evoca rancore: “è un sistema che non va”. E questo aumenta il rancore verso una realtà che non si organizza più a sistema”.

C’è poi una metafora che il presidente del Censis Giuseppe De Rita restituisce per rappresentare l’Italia ed è quella del “paese dalle sette giare”: sono sette mondi pieni di sommovimento interno, pieni di vitalità ma con poca o nulla efficacia sociale esterna perché tutto avviene dentro quegli stessi mondi. Sostiene De Rita: “Nelle sette giare di cui parliamo c’è un grande sobbollire interno ma da quel mondo non si dà nulla agli altri mondi: vivono di se stessi. Il primo mondo è il grande circuito finanziario internazionale. La seconda giara è quella della politica nazionale: da tre anni si è rilanciato il potere della politica ma questo rilancio si fa all’interno della politica stessa. Non è il primato della politica sulla società. C’è una grande vitalità interna nella giara della politica ma un’inesistente efficacia collettiva. Poi c’è il potere delle istituzioni. Sono le istituzioni che hanno fatto l’Italia, dalla scuola alle dogane, dalla Banca d’Italia alle Poste. Oggi però le istituzioni vivono di sé. L’efficacia esterna è nulla. Il quarto punto: che ne è dei mondi vitali?”. Qui il riferimento è alle minoranze vitali, i piccoli e medi imprenditori che si sono rivelati molto competitivi ma che tendono a non fare gruppo. Anche in questo caso, c’è grande vitalità contrapposta a una scarsa efficacia sociale. “La stessa cosa accade nella giara relativa al sommerso – prosegue De Rita – Se sta lì da 40 anni è un fenomeno strutturale di questo paese, significa che bisogna gestirlo, e questo non lo sappiamo fare. C’è poi la giara della gente comune: c’è una grande vitalità ma una scarsa capacità di andare verso l’esterno. La gente comune vive del suo sommerso, del suo risparmio, delle paure, delle urla verso i politici ma non sa andare verso l’esterno. La sua espressione esterna attraverso la società civile, il partito, l’associazionismo, il volontariato, sta diventando meno intensa. L’ultimo mondo che si fa giara è quello della comunicazione: sono tutti in grande effervescenza mediatica, con una fortissima interazione ma all’esterno va pochissimo. I talk show in tre quattro anni hanno finito la loro funzione fino al punto estremo che la comunicazione che va meglio è quella di rappresentare se stessi su facebook e con i selfie. E cosa ci fai col selfie col Papa?”.

Queste sette giare sono tutte asimmetriche, sono mondi diversi non ordinati gerarchicamente. E come si fa a movimentarle? Sorpresa: serve la politica, non come imperio e “decido io”, ma come “arte di guida”. Sostiene De Rita: “In questo momento c’è bisogno di politica. Non quella che conosciamo ma la politica paziente dell’andare a vedere le aspettative. La politica deve scrostarsi di dosso l’idea che sia gestione del potere organizzato. Se non c’è un rinnovamento della politica che acquisisca il potere di capire e orientare il paese, questo paese non puoi gestirlo. Come fai a movimentare il capitale inagito se non sai far politica? La politica attuale ha una bassa reputazione e tre pericoli enormi: il secessionismo sommerso, il pericolo del populismo e il pericolo di autoritarismo”. C’è spazio, in questa analisi, per guardare alla politica del presidente del Consiglio: bisogna vedere, dice De Rita, come intende rilanciare il primato della politica e se anche lui uscirà dalla giara.

di Sabrina Bergamini
@sabrybergamini

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